Lo scrittore che incontriamo oggi si chiama Lionello Scalisi, caro amico da anni. Pur avendo abitato a Bergamo per molto tempo, dove ha svolto la professione di medico, da pochi mesi si è trasferito a Milano.

“Esatto, ho lasciato questa bella città, ora abito nella ‘metropoli’. Ma prima di tutto permettimi di ringraziarti Roberto per avermi offerto ospitalità nel tuo blog. Devo confessare ai tuoi lettori che mi avevi proposto già alcuni mesi fa di parlare del mio primo libro ‘L’attimo prima del risveglio’, pubblicato da Silele. Ti chiesi in quella occasione di attendere perché stavo finendo il mio secondo romanzo ‘Le scarpe gialle’ uscito proprio in questi giorni, sempre con lo stesso Editore.

“È vero Lionello, abbiamo quindi questa doppia opportunità di far conoscere ai lettori del blog i tuoi due romanzi. Allora parlacene.”

“Volentieri. Intano si tratta di due romanzi di genere. Il primo è di genere distopico, mentre il secondo è un giallo.”

“Quindi due generi diversi e immagino quindi anche di argomento completamente diverso.”

“Beh, certo a prima vista sì, completamente diverso.’ L’attimo prima del risveglio’ è ambientato in un futuro molto lontano in cui la popolazione della Terra, dopo aver rischiato l’estinzione, vive apparentemente in una condizione felice, senza preoccupazioni, governata da una classe dirigente competente e onesta. “

“Caspita che fortuna! Allora non è non è la solita storia orwelliana su un regime che opprime la popolazione rendendola succube di un potere dispotico. “

“Sì e no. Infatti, nel mio racconto accadono vicende che mettono a rischio le buone Istituzioni, perché qualunque regime sociale, anche quello apparentemente perfetto che crede di agire per il bene comune, finisce per coltivare i germi dell’oppressione e della prevaricazione. E sarà contro questo sistema che un manipolo di eroi si ribellerà e combatterà per riportare in quella comunità ciò che si è perso e che il lettore, se vuole, potrà scoprire leggendo il libro.”

“Immagino, conoscendoti, che la trama sia anche lo spunto, diciamo la cornice, dove inserire riflessioni su questioni che riguardano la società contemporanea.”


“Esatto Roberto. Si parla di ecologia, ambiente, scienza, religione, rischio nucleare, intolleranza, ecc. Ma mi riallaccio a questa tua domanda per parlare del secondo libro, ‘Le scarpe gialle’. Vedi Roberto, benché l’argomento e l’ambientazione del romanzo siano del tutto diversi, li accomuna la stessa intenzione di attirare il lettore usando come esca una trama che spero sia godibile e accattivante per parlare di cose diciamo più serie, che anche in questo caso ci riguardano direttamente, anzi in un certo senso sono di stretta attualità.”

“Interessante... spiegaci in che senso.”

“Certo. Intanto il racconto è ambientato in una RSA. Sì, proprio in una di quelle strutture, che sono diventate tristemente famose in questo periodo, dove vengono ospitati i nostri anziani. Una volta, dico nel libro, venivano più semplicemente chiamate ospizi e infatti tali sono. Ebbene in questo luogo, immaginario ma non troppo, muore un ospite apparentemente per una caduta accidentale. Ma ovviamente non è così. La figlia del defunto per una serie di circostanze fortuite intuisce che la morte non è accidentale e indaga, aiutata dal compagno e da due amici, fino a giungere alla soluzione del mistero che tra l’altro porterà alla scoperta di intrighi e misfatti che si nascondono dietro un muro di rispettabilità e di perbenismo. Ma come ti accennavo il racconto è l’occasione per parlare di questioni come la vecchiaia, la malattia, la ricerca e la sperimentazione, il sistema sociosanitario. E spero di averlo fatto, pur in modo divulgativo, con leggerezza e semplicità.”

“Del resto tu sei un medico e hai una grande competenza di certi argomenti.”

“Beh, diciamo discreta. Comunque, benché mi sia sforzato di rendere plausibili gli argomenti più tecnici, non bisogna dimenticare che si tratta pur sempre di unopera di fantasia e soprattutto di un giallo. Di cui, spero, il lettore apprezzerà l’intreccio che ritengo possa riservare molte sorprese anche al giallista più esigente.”



 

                   La neve di primavera. Un anno con Giacomina (Bertoni Editore – luglio 2020)


Maria Rita Milesi, psicologa psicoterapeuta, vive a Bergamo dove è nata nel 1968 e si dedica all’attività privata come psicoterapeuta. Dopo l’esordio letterario di pochi anni fa, come autrice di racconti, recentemente ha pubblicato il suo primo romanzo, ‘La neve di primavera. Un anno con Giacomina’. 

La incontro per saperne di più. 

Come è nata l'idea del libro?

La neve di primavera. Un anno con Giacomina è il mio romanzo d’esordio. L’idea è nata rileggendo Marcovaldo di Italo Calvino, libro che non riprendevo in mano da decenni. La scrittura quasi fiabesca di Calvino mi ha rapita e meravigliata. Così è nata Giacomina, un personaggio ingenuo e buono, un po’ come Marcovaldo, ma a cui si aggiunge una sensibilità femminile e una riflessione intima e poetica. L’intento è stato quello di creare un personaggio capace di conservare lo stupore della fanciullezza, nonostante le difficoltà della vita. 

Il tuo rapporto con la scrittura?

Ho iniziato a scrivere, per lavoro, articoli scientifici in ambito psicologico, quindi molto tecnici. La scrittura, diciamo così, creativa, è stata una scoperta recente, iniziata per caso partecipando a diversi concorsi letterari. Stupita dal riscontro positivo ricevuto da alcuni miei racconti, ho provato a scrivere qualcosa di più strutturato. Il processo creativo è davvero misterioso … mi viene in mente Vasco Rossi che in Una canzone per te dice “Le mie canzoni nascono da sole, vengono fuori già con le parole”. Lo stesso mi pare succeda per le storie; poi però si aggiunge un faticoso lavoro di rifinitura delle frasi, di ricerca dei termini che evochino nel lettore gli scenari descritti.

Quello, invece, con la lettura? 

Un amore nato da bambina e proseguito ininterrottamente fino ad oggi. Leggere aiuta a pensare, ti trasporta in tanti mondi, ti permette di vivere mille vite. E’ uno dei piaceri a cui non potrei mai rinunciare.

Di cosa parla questo romanzo? 

Il libro è composto da dodici racconti, uno per ogni mese dell’anno, che scandiscono lo svolgersi delle vicende di Giacomina nella piccola città in cui vive. Per la protagonista, donna mite ed animata da valori semplici, è un susseguirsi di cose nuove e strane, e con esse un crescendo di ingenua meraviglia, di tenera commozione, talora di sincera riprovazione e di amara malinconia. Lo scorrere dei mesi e l’avvicendarsi delle stagioni sono rivolti a far partecipare la natura all’umile vita di Giacomina e a quella degli altri personaggi dei racconti. La protagonista riamane sospesa tra la realtà e il suo modo di intendere le cose, tra la riflessione intima e poetica del suo animo semplice e l’ardente desiderio di rendere giustizia a un mondo che si avvicina per certi versi a quello infantile, a una narrazione fiabesca, che procede per archetipi.

E chi è Giacomina? 

Giacomina ha un animo poetico, un mondo interiore complesso e una grande sensibilità; le sue fantasiose risposte agli accadimenti la rendono un personaggio singolare e animano la narrazione. La Piccola Città in cui si svolgono le vicende della protagonista non viene mai citata, ma ogni bergamasco potrà riconoscere la propria città nei luoghi descritti.

Prima di lasciarci, vorrei sapere a chi è in particolare rivolto questo libro: quale potrebbe essere il lettore tipo?

Il libro è rivolto alle persone dall’animo sensibile, capaci di immedesimarsi nel tenero personaggio di Giacomina, il cui cuore non è stato indurito dalle dolorose vicende della vita.  Il file rouge della narrazione è quello dei mondi e delle vicende nei quali Giacomina si immerge, che rappresentano la condizione umana di alcune persone buone e semplici. E’ una lettura adatta sia agli adulti sia ai ragazzi, già a partire dalla scuola media inferiore se accompagnati. 





La forza della vita a misura di bambino con
La giornata è più bella di Teresa Capezzuto




Un libro incantevole da leggere ad alta voce e sfogliare in ogni momento della giornata, godendo 

appieno di parole e immagini in un musicale dialogo fra loro. Questo è La giornata è più bella

(Edizioni il Ciliegio, 2020), il nuovo libro dell’autrice bergamasca Teresa Capezzuto, insegnante e 

giornalista, poetessa e scrittrice di narrativa, con particolare attenzione alla letteratura per bambini e

ragazzi.   

Benvenuta Teresa! Sfogliando le pagine di questo albo illustrato, si nota l’abilità 

con cui racconti di cose importanti a misura di bambino ...

Beh, si tratta di un frizzante racconto poetico, in suggestivo dialogo con immagini di grande 

freschezza narrativa create dall’illustratrice Albertina Neri. Un libro pensato per bambine e bambini 

dai tre ai sei anni, per condurli alla scoperta della vita e della sua forza, riconoscendo il bello 

sempre presente, anche in mezzo alle difficoltà, nelle piccole e grandi cose di ogni giorno. E può 

piacere ai più grandi in cerca di poesia, riflessioni, immagini e suggestioni che parlano della nostra 

vita. 

Dopo le sillogi poetiche Autentica e  Particolare, e il racconto interattivo per la scuola primaria 

Gol alle porte del Sahara, con  La giornata è più bella ti rivolgi a un pubblico di bambini più 

piccoli, dai tre ai sei anni. Ci parli del perché di questa scelta? 

La letteratura per l’infanzia mi appassiona per quel senso di stupore e meraviglia che riesce a 

favorire accompagnando all’esplorazione di sé, degli altri e del mondo, in un’esultanza di emozioni 

e colori in grado di aprire infiniti canali comunicativi. Quando si crea una storia è fondamentale 

guardare il mondo con occhi nuovi ogni giorno e raccontarlo da diversi punti di vista e prospettive 

anche inconsuete, attraverso parole, immagini, suoni e ritmi scelti con cura e mai banali.

Quando per un bambino e non solo la giornata è più bella?

Quando si osserva una luce di speranza che illumina il buio, si entra in una casa sempre aperta 

all’accoglienza, si ammira l’arcobaleno che colora il cielo dopo il temporale, si utilizza il potere 

creativo dell’immaginazione, si trova il coraggio di riprovare mentre si sbaglia, si supera un lutto 

grazie alla dolcezza del ricordo di chi non c’è più e così via. Sono davvero tanti i colori della vita, 

che possiede sempre un lato positivo da valorizzare.

Attraverso La giornata è più bella i bambini incontrano l’amore e l’amicizia, la gentilezza e 

l’accoglienza, il coraggio e la memoria, la fantasia. Che ruolo giocano le illustrazioni? 

Albertina Neri ha creato un testo parallelo alla storia, con immagini sui vari momenti della giornata 

di un qualsiasi cucciolo, d’uomo o d’animale, partendo dalla nanna e ritornando ad essa, passando 

attraverso la colazione, la pulizia personale, il pranzo, lo studio, il gioco, la condivisione e il ristoro 

prima del ritorno del momento della sera. Ogni giorno infatti, attraverso il gioco, la curiosità e 

l’entusiasmo, si mostra prezioso. E per dirla tutta, Edizioni il Ciliegio, a richiesta, fornisce anche la 

scheda didattica del libro.

Grazie Teresa, e per quanti desiderano tenersi aggiornati sulle tue pubblicazioni, ecco il sito 

personale www.teresacapezzuto.it e il canale www.youtube.com/TeresaCapezzutoautrice.




                                             LA "MARAVIGLIOSA INVENZIONE"

Questo libro, CAVALLI DI FERRO, racconta la storia delle prime ferrovie dell’alta Italia, dall’inaugurazione della linea Milano-Monza nel 1840 fino all’unità d’Italia del 1861.

L’autore è l’amico Claudio Tognozzi, grafico bergamasco, da sempre appassionato di treni e di tutto ciò che riguarda il mondo del trasporto a rotaia. Oltre a questa, ha scritto diverse altre opere: “L’indimenticabile emozione dei primi viaggi in treno”, “Il cicloturismo al tempo del Liberty”, “Le vie del Sempione”, “Viaggio da Milano ai tre laghi Maggiore, di Lugano e di Como”, “Itinerario d’Italia”, “Storia illustrata dei navigli lombardi” e “Da Milano a Ginevra pel Sempione”. 

Libri, quindi, che intrecciano mobilità, tecnica e storia, con un occhio rivolto alla scienza del passato e un altro che scruta le potenzialità del futuro; volumi che mescolano con sapienza la profondità del saggio con l’immaginazione del romanzo. 

Le “strade di ferro” italiane dell’Ottocento, con i valichi e i trafori ferroviari che scavalcavano l’ostacolo storico-geografico dei rilievi alpini, misero in comunicazione popolazioni di varie provenienze, favorendo scambi commerciali, oltre a nuove esperienze di vita. La costruzione stessa delle ferrovie contribuì all’elaborazione di molte invenzioni e innovazioni tecnologiche. Con l’avvento delle ferrovie nacquero anche i primi flussi turistici e sorsero attività imprenditoriali legate agli svaghi della nuova borghesia itinerante. 

Le prime ferrovie italiane nacquero sotto la spinta di una non ancora ben definita modernizzazione o per motivi di prestigio. La consapevolezza delle grandi potenzialità del trasporto su rotaie in relazione allo sviluppo industriale ed economico nazionale fu percepita più tardi. Sull’argomento, già nel 1835 il preveggente venticinquenne Cavour scriveva: “La macchina a vapore è una scoperta che non si saprebbe confrontare, per la grandezza delle sue conseguenze, che a quella della stampa o meglio ancora a quella del continente americano.”

Oggi, di fronte a un treno ad alta velocità, con il massimo del comfort, che sfreccia silenziosamente a 300 all’ora per i territori della nostra penisola, si prova un misto di moderato interesse e di compiacimento. Non si riesce nemmeno vagamente a immaginare lo stupore degli uomini del XIX secolo per l’avvento della “maravigliosa invenzione”, cioè la ferrovia, e dei “cavalli di ferro”, cioè le locomotive, infernali mostri sputafuoco. A quei tempi, era un modo di viaggiare eroico, pauroso, faticoso e pure pericoloso, ma modernissimo e di irresistibile fascino. 

Claudio Tognozzi

www.tognozzi.it – claudio@tognozzi.it

Edizioni Artestampa

www.artestampaedizioni.it


 Un tuffo al 'come eravamo' cinquant'anni fa con Riccardo Oliverio, autore del romanzo ELVIRA 

Incontriamo Riccardo Oliverio che regge orgoglioso tra le mani una copia di ELVIRA, il suo primo romanzo da poco pubblicato con Lubrina Bramani Editore.

“Bene arrivato nel mondo degli scrittori! Prima che come autore, vuoi però presentarti come persona?”

“Sono di Bergamo, ci sono nato nel 1954 in un gennaio particolarmente freddo, come lo erano, in quegli anni, tutti gli inverni. Sono abbastanza schivo e mi definisco operoso.

Sul lavoro non mi sono mai mancate le soddisfazioni: da subito, appena diplomato, sono entrato a far parte di un gruppo siderurgico nazionale. Per me è stata una grande opportunità, una università applicata. In pochi anni, diventato dirigente, ho assunto la direzione generale di una società siderurgica privata. Ho lavorato lì per quasi un ventennio, poi ho deciso di diventare consulente freelance, collaborando con varie aziende europee.

Amo viaggiare e fotografare e ora, oltre che a dedicarmi alla scrittura, faccio felicemente il nonno di professione.”

 

“Qual è stato allora il momento in cui ti sei accorto di aver sviluppato la passione per la letteratura?”

“Sicuramente alle superiori. In quegli anni, c’era un gran fermento letterario che coinvolgeva molti scenari, dalla politica alla letteratura e alla musica. Io ne ero incuriosito, leggevo di tutto.”

 

“C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?” “«L’ombra del Vento» di Carlos Ruiz Zafón. Mi ha letteralmente rapito dalla prima all’ultima riga, nella scrittura scorrevole dell’autore si leggono brani tra storia e mistero conditi da profondo sentimento.”

 

“Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?”

“In effetti sì, l’ho proposto a molti editori. I quali però, con abbondante eleganza, (sorride) lo hanno tutti rifiutato. Finché un giorno Lubrina Bramani Editore, con incoscienza, devo dire, e grande coraggio, lo ha pubblicato a sue spese. Devo essere loro molto grato.”

 

“Pubblicare su Amazon KDP è stata una scelta vincente?”

“Sinceramente, non sono in grado di dirlo, non è stata una mia scelta diretta. Immagino, visto che l’editore se n’è occupato, che lo abbia fatto a ragion veduta. Attendo fiducioso.”

 

“Dopo averci raccontato di te, ci devi parlare di questo romanzo. Di cosa tratta? E in che tempo è ambientato?”

“Ti confesso che mi sono molto affezionato ad Elvira, la protagonista, tanto che durante la stesura ero così preso che mi sembrava di vivere una Second Life. Essenzialmente è una storia sentimentale, di speranza.

E d’amore, nella sua accezione più sublime.

La narrazione inizia nell’autunno 1969 quando i protagonisti, Elvira e

 

Sebastiano, s’incontrano a Bergamo, un luogo reale, ma che diventa un luogo universale dove tutti si possono riconoscere.

Sono giovani, con mille speranze; ma quando decidono di convivere, la ragazza sparisce misteriosamente.

La storia si divide in due parti: la prima è ambientata nel passato narrativo ed è quella che farà affiorare maggiormente i ricordi, mentre la seconda è rivolta al presente dove Sebastiano cerca di risolvere questioni rimaste in sospeso.

Da qui, la narrazione irrompe in un modo inatteso e burrascoso.”

 

“Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure ti butti d'istinto?”

“La trama non ha avuto bisogno di essere scritta, era incisa nella mia mente. Ho preso molti appunti per i riferimenti storici e ho scritto d’istinto. Sono state le mie dita a muoversi inconsciamente sulla tastiera.”

 

“L’ultima domanda è d’obbligo: in questo periodo stai scrivendo un nuovo libro?

E se sì, è dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?”

“Sì, ho iniziato a scrivere quello che si potrebbe definire il sequel. In definitiva, questo secondo dovrebbe riuscire a chiarire alcune tra le vicende rimaste a mezz’aria in ELVIRA.”


           Self-publishing, una nuova opportunità per gli autori

Charles Dickens, Alexandre Dumas, T.S. Eliot, Benjamin Franklin, Ernest Hemingway, James Joyce, Stephen King, D.H. Lawrence, Edgar Allen Poe, Marcel Proust, JK Rowling, George Bernard Shaw, Arthur Schopenhauer, Lev Tolstoj, Mark Twain, Walt Whitman, Virginia Woolf...

Cosa accomuna tutti questi autori: lo stile? L’epoca nella quale sono vissuti? Il genere di romanzo?

Nessuna caratteristica tra queste, bensì il fatto di aver iniziato la propria carriera mediante la cosiddetta autopubblicazione, ovvero self-publishing. La storia della letteratura è piena di autori che hanno iniziato il loro percorso senza l’ausilio di un editore o molto spesso sono stati costretti a farlo a causa dei numerosi rifiuti ricevuti da essi.

Il self-publishing è un termine inglese che significa letteralmente auto-editoria. Questa parola indica una modalità di pubblicazione nella quale l’autore pubblica autonomamente, senza cioè passare attraverso un editore tradizionale, diventando di fatto un’auto-editore o editore di sé stesso. 

In definitiva il self-publishing è un metodo di pubblicazione alternativo a quella che definiremo editoria tradizionale, quel modello di business in cui l’autore affida (cedendo) la propria opera ad un’impresa che si assume il rischio imprenditoriale di produrre, distribuire e vendere il libro.

Con il self-publishing è l’autore che gestisce tutti questi aspetti, oltre naturalmente anche a tanti altri come l’editing, cioè la revisione del testo, l’impaginazione, la realizzazione della copertina, la stampa, la promozione e, ultima sul piano operativo ma importantissima, la distribuzione. Sarebbe infatti inutile pubblicare centinaia o addirittura migliaia di copie di un romanzo destinate poi a restare negli scatoloni, senza la prospettiva di raggiungere le librerie. 

Accanto a questi vengono assunti dallo scrittore anche tutti gli oneri e gli onori propri di un editore: l’incasso e la gestione dei diritti e gli aspetti fiscali e contrattuali connessi all’eventuale sfruttamento dell’opera.

Un ultimo aspetto: il self-publishing nulla ha a che vedere con l’editoria a pagamento o vanity press, come la definiscono gli inglesi. Quest’ultima è invece la modalità nella quale l’autore accetta una proposta di pubblicazione da parte di un editore tradizionale che, dietro il pagamento di un corrispettivo economico (spesso piuttosto cospicuo), pubblica l’opera. L’editore si impegna a fornire all’autore una serie di servizi come l’editing, la stampa di un numero minimo di copie, la distribuzione nelle librerie tradizionali, l’organizzazione di presentazioni e in generale la promozione dell’opera, scaricando però sull’autore tutto il rischio imprenditoriale, in quanto nella maggior parte dei casi il contributo pagato è sufficiente a garantire ottimi profitti all’editore stesso.

 

Incontro Erica Villa, giovane scrittrice bergamasca di 26 anni, e subito vengo travolto da un fiume di parole. Anche se disabile dalla nascita, mi accoglie con grande simpatia e inizia subito a raccontare.

“Mi sono diplomata in ragioneria, ma non trovando un lavoro adatto al mio percorso di studi, un giorno ho iniziato a scrivere senza più fermarmi, tanto che adesso sembra che la mia mano scriva da sola. Così, a febbraio 2016 ho pubblicato il mio primo libro, intitolato LEGGIMI DENTRO.”



“Ecco, parliamo subito di questa prima opera” le chiedo.

“LEGGIMI DENTRO è il diario di Erica, ragazza disabile che raccontando alcune giornate significative della sua vita, permette di viaggiare con lei e ammirare la sua vitalità. Un libro che è un insieme di emozioni, ricordi e speranze.”

“E da qui hai continuato.”


“Sì, il secondo libro l’ho pubblicato l’anno successivo. VITA DA SGHIRBIA è un libro di esperienze vissute durante questi miei anni di vita. Mi ha insegnato che si possono aprire e chiudere tante porte, ma che i ricordi rimangono nel cuore e impressi nella mente, nessuno mai potrà portarmeli via.”

“Un libro all’anno: complimenti!”


“Guarda” ride lei, “nel 2018 ne ho scritti addirittura due. A maggio ho pubblicato SENZA CONFINI, una storia nella quale fantastici personaggi caratterizzano questo piacevole racconto ricco di sentimento, amicizia, solidarietà e allegria. Un libro scritto con semplicità e fantasia, insomma.”


“Penso proprio che siano le tue qualità migliori. E l’altro?”

“CORNICI DELLA MIA VITA è il quarto libro, uscito a dicembre. Il suo senso è tutto racchiuso in una frase: ogni persona che conosco è una cornice della mia vita, da custodire con cura nel cuore. Poi sono successe due cose importanti.”

“Raccontami tutto.”

“La prima è triste, è morto Gianluca, un mio amico molto caro. Però in quella occasione ho conosciuto un suo amico che si chiama Fabio Marcassoli, campione di kick-boxing e atleta molto sensibile. Tra noi due nasce una grande amicizia e ben presto il desiderio di correre insieme. Hanno così inizio le sfide del duo Villa -Marcassoli e le nostre imprese nelle maratone. Questo mondo mi ha fatto rinascere e per questo motivo ho deciso di mettere nero su bianco le emozioni che ho provato chilometro per chilometro.”


“E qui parliamo dell’ultimo libro.”

“Certo! Qui si svela il mio lato sportivo: gli allenamenti, la preparazione, e la bravura e la forza di Fabio che spinge la mia carrozzina per decine di chilometri.

“Parliamo del prossimo futuro.”

“Continuare a scrivere, naturalmente, ringraziando Emanuele Pagani e SILELE EDIZIONI. E poi promuovere i miei libri e correre, nelle maratone e nella vita.”



 

“E’ un libro prorompente, magnetico, bellissimo.”

Lorenzo Carpanè si toglie gli occhiali e mi fissa. Ci conosciamo da una decina d’anni, mi ha insegnato molte cose durante diversi incontri per motivi di lavoro, che si sono trasformati in occasioni di crescita anche sul piano letterario. Veronese, docente universitario, formatore, saggista, Lorenzo è legato a Bergamo, che visita spesso, in quanto consigliere del Centro di Studi Tassiani.

Da poco ha pubblicato il suo secondo romanzo, PAGINE DAL FRONTE (Alpine Studio, 240 pagine, 16,00 €), opera tratta dall’autentico diario di guerra di un partigiano chiamato Sandro e scritto dal luglio del ’42 al febbraio del ’43.

“Nel luglio del 1942 ha inizio la campagna di Russia” racconta, “e gli eserciti di Italia e Germania cadono nella trappola dell’inverno russo, obbligando i pochi sopravvissuti ad una grande epopea, lunga migliaia di chilometri.”

“Quindi in questo romanzo il viaggio non fa solo da sfondo, ma è il filo conduttore” chiedo.

“Certo” conferma, “il viaggio è un elemento vivo, il protagonista della realtà cruda e imprevedibile attorno a cui si attorcigliano le esistenze dei due personaggi. Perché a volte si parte per scelta, a volte si parte per ritrovare sé stessi, a volte si parte perché si è costretti.”



“Chi sono e cosa accade, quindi, ai due personaggi?”

“Sono Sandro, partigiano, e Karl, soldato tedesco, che si ritrovano uno di fronte all’altro e decidono in un istante cosa vogliono essere. Da qui si dipana la storia di Sandro: dal fronte russo al ritorno a casa, tra le amate montagne, e poi ancora oltre, passando dalla lotta di Liberazione per arrivare al presente.”

“Conoscendoti, immagino che anche il tema della guerra assuma un’importanza speciale, in questo libro.”

“Anch’esso acquista un significato determinante. Sandro e Karl sono giovani, sono armati e sono nemici: sono in guerra. E non c'è niente di più assurdo del più feroce strumento di morte inventato dall'uomo contro l'uomo. Basta uno sguardo, a loro, l'uno negli occhi dell'altro, per capire. E per cambiare le proprie vite.

“Un libro rivolto a tutti, certo con particolare attenzione ai giovani. Tra pochi anni, ormai, di testimonianze dirette di quegli avvenimenti non ve ne saranno più. E allora dobbiamo studiarle e conoscerle oggi, per non dimenticarle mai.”



Nella scrittura di un romanzo, i due principali stili sono basati o sulla trama o sui personaggi. È un elemento indispensabile che l’autore propenda per uno o per l’altro stile, non perché uno dei due sia migliore dell’altro, ma perché lo scrittore deve decidere in ogni sua opera in quale direzione tendere naturalmente. Questo significa, innanzitutto, che non sempre l’autore utilizzi lo stesso stile per ogni suo libro, ma che volta per volta sceglie quello che ritiene più adatto. 

Tutto nasce all’inizio, al momento della ideazione del romanzo. L’esperienza suggerisce che in alcune storie può verificarsi un evento esterno che costringe il personaggio ad agire e fare qualcosa che normalmente non avrebbe fatto: definiamo questa storia come una storia guidata dalla trama. 

In altre storie, il personaggio compie alcune scelte e in base alla scelta del personaggio determina quale direzione prende la storia: queste sono storie guidate dal personaggio.

Questo significa che tutte le storie devono rientrare in queste due strutture? No, certo. Come in molti altri campi dell’esistenza umana non esiste una soluzione assoluta, per cui probabilmente le storie migliori sono una combinazione di entrambi i tipi di azione. 

Questo porta al punto precedente: identificare le preferenze di stile aiuta a bilanciare questi due componenti critici della trama. In sostanza, fin dall’inizio l’autore determina in quale direzione lavorare.

Ad esempio, preferendo le storie guidate dalla trama, cercherà di risolvere ogni singolo snodo della vicenda e ogni passaggio più complesso che deve accadere per completarla. Questo significa abbandonare la creazione di personaggi, lasciando che in qualche modo si evolvano nel corso del libro? No, ma questa attività rimarrà sempre un po’ marginale rispetto alla precedente. Non esistono quindi una risposta giusta o sbagliata.

Ciò che conta è conoscere l’esistenza di questa propensione naturale e lavorare molto per equilibrare le due parti del processo.

Per quanto riguarda infine la mia esperienza di scrittore, essendo ormai alla stesura del quinto romanzo, valutando i commenti ricevuti in questi anni credo che i miei lettori abbiano gradito più alcuni personaggi ben definiti nelle loro sfaccettature, rispetto alle mie trame. Ma questa è solo un’impressione personale.

 

 

                       Ode al capoverso

Pagina piena, fitta di parole, o pagina con frasi che galleggiano nel bianco?

Saper gestire con maestria il capoverso, cioè la parte di testo compresa tra un “a capo” e quello successivo, non è così scontato come potrebbe sembrare.

Innanzitutto, occorre partire dalla tipologia di narrazione che l’autore sta affrontando a un certo punto della storia. In una fase dove abbondano le descrizioni, i dettagli, la pagina è piuttosto densa. Pochi spazi bianchi, periodi generalmente abbastanza lunghi, nessun dialogo: il ritmo è lento e il lettore potrebbe provare quasi un senso di stordimento o, peggio, di asfissia.

In altre circostanze, invece, molti “a capo” significano azione, dialogo, ritmo via via più veloce e, di conseguenza, impatto visivo più arioso e meno pesante.

Quindi, capoversi lunghi nel primo caso, più brevi nel secondo.

La regola generale dell’andare a capo prevede che ogni singola azione, che abbia continuità nel tempo, debba essere contenuta all’interno di un singolo capoverso. Spezzare un’azione in più parti rischia di sconcertare il lettore, rendendo difficile il susseguirsi dei rapporti tra i vari personaggi.

Inoltre, sta alla bravura dell’autore evidenziare singole frasi o, addirittura, singole parole, isolandole in un’unica riga. Un termine circondato da un ampio spazio bianco spicca molto più che una parola annegata in mezzo a mille altre. Rimane, in sostanza, scolpita nella pietra, lapidaria, e assume quindi una valenza particolare.

Anche nel gioco tra bianco e nero, tra vuoto e pieno, tra fitto e rado, si può valutare la bravura di uno scrittore.

 



Incontro Sandro Pinello, mio buon amico e lettore nonché recentemente divenuto collega scrittore, per una chiacchierata che riguarda il suo esordio letterario dal titolo “Le Vele dello Sciamano”, un bel libro di fantascienza. Inizio con una curiosità: secondo te, come nasce un romanzo?

R.: Credo da un’esigenza comunicativa, la stessa che accomuna indistintamente il genere umano. Tutti noi siamo abituati a esprimerla con le parole, con i gesti del viso, con le movenze del corpo, attraverso un regalo, che spesso accompagniamo con un sorriso. Gli artisti, i più dotati accesi da una vera luce divina, lo fanno attraverso la scultura, mediante un dipinto, unendo con sapienza e maestria le note musicali. Risultato: un feeling emozionale che unisce l’opera, non necessariamente l’autore, al proprio pubblico. Molti scrittori entrano a pieno titolo fra gli artisti che sanno toccare le corde più sensibili e nobili dei lettori, disposti ad appassionarsi sino alla commozione, purché la comunicazione dell’autore sia sincera e mai banale.

D.: E la storia, invece?

R.: La storia può nascere in mille modi: da un incontro fortuito, da un cartellone pubblicitario più o meno intrigante, da una frase senza pretese, da un avvenimento di cronaca, da una disgrazia propria o altrui, da un momento di gioia o da una delusione. Si tratta sempre di un piccolo seme, capace però di accendere la fantasia dell’autore. Lui avrà la responsabilità di prenderlo nelle sue mani con cura e delicatezza, di coccolarlo e di amarlo, di alimentarlo con il cibo dell’anima, di farlo crescere e di portarlo a giusta maturazione.

D.: Allora qual è il segreto per scrivere un buon libro?

R.: Voglio evitare inutili discorsi riguardanti la tecnica dello scrivere, o la preparazione culturale dell’autore, o ancora la fantasia che lo ispira; dico soltanto che il linguaggio e la forma devono essere genuini, sinceri e vicini alle sensibilità della gente.

D.: Parlami un po’ di “Le Vele dello Sciamano”.

R.: Finalmente mi rivolgi la domanda a cui tengo di più... (ride) cominciavo a essere preoccupato. Premetto, rifacendomi a uno degli argomenti sopra accennati, che la storia è nata spontaneamente, da un sogno che ho fatto durante le ore mattutine di un giorno di maggio, quelle che più di altre sanno dare la giusta ispirazione. Anche in questo caso, da una prima idea, è nato un romanzo. Questo, come altri miei lavori, è ambientato in un mondo immaginario, ma che ospita in maniera appropriata e funzionale tutti gli attori che si muovono all’interno di esso. Il lettore, da parte sua, entra da subito in sintonia con la storia, senza per questo essere chiamato a uno sforzo di adattamento, anzi: trova perfettamente naturali tutti gli avvenimenti che danno colore e interesse alla sua lettura. Vedi, io sono convinto che noi tutti abbiamo la necessità di dare spazio alla nostra fantasia, soprattutto oggi che viviamo all’interno di una società sempre più tecnologica, che ci obbliga a correre con frenesia, impedendoci, spesso, di fermarci a ragionare sulle cose che ci stanno intorno, che, se opportunamente considerate, potrebbero dare nutrimento alla nostra anima. Allora ben venga una visita ai musei, una serata a teatro ad apprezzare un’opera lirica o una buona commedia e, perché no, un buon libro da coccolare fra le braccia e da leggere con passione.

D.: Raccontami cosa ti ha ispirato la storia o, come si dice oggi, il ‘plot’.

R.: Come sfondo della storia, c’è l’eterna lotta fra il bene e il male. Sin dai tempi più remoti scandisce l’esistenza del genere umano, e in questa diatriba infinita i buoni e i cattivi si confrontano senza che gli uni riescano a prevalere sugli altri. Il romanzo non si sottrae a questa ineludibile regola, poi all’interno di tale cornice, ci sono molte altre componenti della vita quotidiana: gli amori, che devono confrontarsi con le avversità della vita; quelli che finiscono, al di là della volontà di chi li vive; le passioni impossibili. E molto altro ancora: gli imprevisti, i colpi di scena, le disgrazie, la follia. Non mancano, come è normale che sia, i momenti di spensieratezza, di leggiadria, di esilarante esaltazione; persino quelli che spingono alcuni personaggi a progettare il loro futuro, in chiave di felicità. Ma, a conti fatti, la felicità è un bene effimero; presto, chi è riuscito a sfiorarla, se la vedrà sfuggire dalle dita.

D.: Come sai, con grande piacere ho avuto il privilegio di leggerlo in anteprima ed è stata una gradita sorpresa. Devo ammettere che, sin dalle prime pagine, non sono più riuscito a smettere finché non l’ho finito e quando l’ho terminato già sentivo nostalgia dei personaggi con i quali ho condiviso una straordinaria avventura. Tu però adesso mi devi confessare a cosa stai lavorando, perché ho il sentore che il tuo prossimo impegno abbia qualcosa da spartire con “Le Vele dello Sciamano”.

R.: Mi hai beccato… (ride) In effetti, ho parecchie idee da sviluppare e un paio di libri in cantiere, già scritti in buona parte. Ultimamente, sto dando la precedenza al romanzo che vorrei pubblicare il prossimo anno, del quale posso anticipare solo il titolo: “Il volo dell’Asceta”.

Insomma, anche Sandro Pinello mi diventa recidivo. È un bene, naturalmente, perché ha una prosa ricca ed elegante, frutto di anni di letture. Ed è persona di grande sensibilità, capace di appassionare i suoi lettori. Mi auguro che tra questo esordio e i prossimi libri, divengano sempre più numerosi.

 

 


 

Uno tra gli elementi di maggiore importanza nella struttura narrativa di un romanzo – in particolare per alcuni generi come thriller, gialli, fantascienza e altri ancora – è la capacità di mantenere la giusta tensione durante tutto l’arco della trama.

I lettori, pagina dopo pagina, non devono mai avvertire una sorta di allentamento nella vicenda, tutt’altro: il susseguirsi dei conflitti tra i vari personaggi, come i divari esistenti tra gli stessi personaggi e le loro aspettative, devono continuamente alimentare la curiosità.

Il meccanismo della tensione è piuttosto semplice. Dapprima l’autore conduce il proprio personaggio all’interno di una situazione, poi suscita l’occasione per porre una o più domande: vivrà? Morirà? Raggiungerà il proprio obbiettivo o verrà sconfitto? S’innamorerà?

Per fare questo, in apparenza un’operazione semplice, occorre però seguire alcune accortezze.

Innanzitutto, si devono tratteggiare con sufficiente precisione i personaggi prima di creare i relativi momenti di tensione. Finché il lettore non resterà ammaliato dal fascino di un personaggio, difficilmente potrà appassionarsi ai suoi conflitti.

Poi, la tensione deve incidere in modo sensibile nell’equilibrio del personaggio. Un impatto emotivo di poco conto, infatti, lascerebbe indifferente anche il lettore.

Infine, occorre creare momenti di tensione principali, quelli che dovranno essere risolti solo al termine del libro, alternandoli con altri di minore importanza da disseminare qua e là per tenere sempre alta l’attenzione nelle altre vicende che compongono la trama.

Come sempre, nei romanzi si riflette la vita di tutti i giorni. Saper presentare con bravura le vicende umane, raccontandole in un libro, significa rappresentare in modo affascinante i sentimenti che tutti i giorni agitano la nostra stessa esistenza.


Un buon romanzo noir può essere locale e contemporaneamente globale? Esiste, cioè, la possibilità che un autore riesca a coinvolgere lettori anche molto lontani per cultura e tradizioni?

La risposta è sì. Vi sono scrittori, studiati e apprezzati anche a distanza di molti anni, che hanno emozionato persone in tutto il mondo.

Qual è, quindi, il loro segreto? Perché riescono a conquistare una sorta di immortalità? Le risposte possono essere molte.

Si diceva, in un commento della scorsa settimana, che la letteratura noir è lo specchio delle più cupe vicende umane. Sparizioni, tradimenti, bugie e sotterfugi sono la cifra caratteristica di ogni trama noir che si rispetti. I protagonisti spesso nascondono dietro una maschera di perbenismo le vicende più segrete della propria vita passata, manipolando le persone nel tentativo di ottenere la fiducia altrui o di rincorrere i propri interessi. E sono, queste, caratteristiche universali comuni a ogni popolo presente sulla Terra.

I narratori in grado di scandagliare l’animo umano e le sue eterne pulsioni attraverso il tempo - odio, amore, passioni, speranze, tutto ciò che appartiene al vivere comune di oggi così come all’inizio del mondo - si trovano davanti praterie amplissime. Ambientare una storia in una metropoli del mondo occidentale o in una sperduta cittadina posta ai margini della Terra, a questo punto non rappresenta un problema. E fino a qui s’è parlato di global.

Per divenire più credibile possibile, però, la realtà del narrato non può essere sospesa in uno scenario indeterminato. Ecco allora che scorci, inquadrature, panorami, financo sapori e suoni tratteggiati all’interno delle pagine caratterizzano con grande precisione il racconto, collocandolo in una terra e in uno spazio definiti. L’uso del dialetto, la rievocazione di tradizioni, vestiti, cibi, possono essere paragonate al sapiente lavorio della lima dell’artigiano, che cesella ogni singolo pezzo evidenziando anche il più minuto particolare. E qui, irrompe sulla scena il local.  

In fondo, sono convinto che uno scrittore sia davvero un ‘artigiano della parola’.


Il noir, il genere letterario a cui maggiormente mi ispiro per i miei romanzi, non pullula di eroi.

I protagonisti dei libri noir di solito sono persone normali: impiegati e casalinghe, ragazze provenienti da famiglie bene, qualche pensionato. Intorno a loro però si muove un sottobosco di personaggi ben diversi: truffatori, persone incazzate o piegate dalle vicende della vita, ma anche insospettabili manager e dark ladies.   

A volte, le trame noir possono apparire banali. Capita magari che qualcuno sparisca, o venga ucciso in circostanze strane, o poco altro di più. Nei noir, non imperversano killer supertecnologici armati fino ai denti. Tra le pagine dei noir non spadroneggia l’interminabile alternarsi di ispettori, capitani, commissari e marescialli, figure che in tutta onestà oggi forse iniziano a stancare.  

Durante la lettura di un noir, non ci s’imbatte in inseguimenti automobilistici mozzafiato o sparatorie interminabili, né si trovano scene truculente o estenuanti lungaggini scientifico-legali.

Un romanzo noir, come sostiene Maurizio De Giovanni, è davvero uno spaccato della vita reale di tutti i giorni, narrato con la giusta misura e capacità d’introspezione. Un noir è la fotografia impietosa di tutto il peggio che alberga nell’animo umano: passioni, amori, odii, invidie, ipocrisie e meschinità.

Leggere un noir è come aprire lentamente una porta, facendo filtrare una lama di luce in una stanza buia, e scoprire le vicende di tante persone.

E a pensarci bene, la gente che incontriamo in un libro noir ci assomiglia dannatamente in tutto.

 Scrivere: descrivere o evocare?


Il quadro mostrato qui sopra, del maestro sivigliano Diego Velázquez, rappresenta due figure, in spagnolo enano e perro ovvero un nano con un cane.

Qual è il titolo di questa famosa opera dipinta intorno alla metà del Seicento? È “Enano con un perro”. Grazie tante, dirà qualcuno, ci ero arrivato da solo. La questione, in realtà, non consiste in un banale gioco di parole, ma è bensì assai più complessa in quanto affronta l’essenza stessa dell’arte di scrivere.

Scrivere in senso letterario non significa semplicemente ‘descrivere’. Raccontare le vicende degli uomini – gli amori, le guerre, le relazioni, le passioni, i conflitti – non vuol dire inanellare una sequenza di parole che si limita a esporre in modo cronologico quanto accade durante lo svolgersi degli eventi.

Scrivere in senso letterario significa ‘evocare’, cioè suscitare emozioni. I fatti - ciò che capita ai personaggi - vanno presentati non in modo diretto ma attraverso immagini e sensazioni.

Un esempio, ancorché breve, può aiutare a comprendere meglio.

“Roberto quel pomeriggio doveva vedersi con Emanuele, si erano dati appuntamento per le cinque nel bar centrale della città. Roberto camminava veloce perché era in ritardo. Quando finalmente giunse nel locale si accorse che era molto affollato, e faticò a trovare l’amico seduto a un tavolino in fondo.” (modalità descrittiva)

“Un’occhiata veloce all’orologio: le cinque e dieci. Roberto allungò il passo, sapeva che Emanuele era puntuale agli appuntamenti e gradiva che lo fossero anche gli altri. Ecco il bar, finalmente, quello elegante in centro città. Spinse la porta, entrò trafelato, il frastuono delle voci lo colpì in modo fastidioso. Si sollevò sulla punta dei piedi per guardare oltre le teste finché scorse l’amico nel posto più distante, l’ultimo tavolino in fondo.” (modalità evocativa)

L’immedesimazione nel personaggio (l’ansia per il ritardo, il disappunto per l’amico seminascosto), l’uso dei sensi (il vocio fastidioso), le movenze corporee (la corsa, l’apertura della porta, l’alzarsi in punta di piedi, lo scrutare): tutto ciò ‘evoca’, non ‘descrive’, e rappresenta la base indispensabile dalla quale iniziare, ovvero l’utilizzo della scrittura ‘descrittiva’ e non di quella ‘evocativa’.



Chi non ha mai letto quello che, dopo “La Divina Commedia” e “I promessi sposi”, è certamente il più famoso inizio di un libro? Bastano pochissime parole per mostrare al lettore, in modo accattivante, il protagonista del romanzo: un pezzo di legno.
Consideriamo con quanta abilità l’autore riesca a suscitare grande attesa. 
Innanzitutto, l’attacco è del tutto tradizionale: c’era una volta… Il solito inizio di tante favole, che rassicura e incuriosisce.
Ancora: l’oggetto scelto è umile, quasi insignificante, uno scarto da gettare via di cui non resta più nulla (non a caso Pinocchio si brucerà i piedi addormentandosi davanti al fuoco).
Inoltre, prima ancora di nominarlo, per contrapposizione Collodi immagina che i suoi piccoli lettori stiano pensando a un re, ovvero alla massima espressione di importanza per quel tempo (siamo alla fine dell’Ottocento, quasi un secolo e mezzo fa). Oggi i bambini forse penserebbero a un calciatore e le bimbe a una influencer, i miti dei tempi odierni.
Infine, e questo è il momento più magistrale, il botta e risposta, la sorta di dialogo che intercorre con i lettori, come se lo scrittore strizzasse l’occhio ai suoi giovani amici.
Il tutto, racchiuso in 24 parole. Una bravura che, a mio modesto parere, rimane ancora oggi insuperata.


L’incipit, in un romanzo, non è tutto. Posto all’inizio della narrazione, rappresenta l’impatto immediato per il lettore, che già dalle prime righe dovrebbe comprendere il senso del romanzo. Sotto questo aspetto, quindi, svolge esattamente la stessa funzione delle immagini di apertura di un film.
Qual è il segreto per incuriosire il lettore? Non credo che ne esista uno in senso proprio. Vi sono però diversi approcci, senza che per forza uno sia migliore dell’altro. Si può presentare il protagonista, oppure un personaggio d’appoggio o anche una figura minore; si può gettare il lettore direttamente nella cosiddetta ‘scena madre’ e poi inserire un flashback; si può invece prenderla alla lontana, dipanando una parte più o meno significativa della storia. Immagino, pur non avendone la certezza, che esistano narratori che abbiano scritto l’incipit una volta terminato il libro. Credo che la sensibilità dell’autore intuisca quale sia la soluzione più adatta per accattivarsi i lettori fin dalle prime pagine.
Quali sono i miei quattro incipit? Nell’ordine: il funerale del miglior amico (Festina lente), l’incontro tra due giovani cugine (Rossa è la sera dell’avvenire), una segretaria in lacrime per la scomparsa del datore di lavoro (Finché suona la campana), una rapina un po’ sgangherata (Il fetore dei soldi).
Se qualcuno mi domandasse qual è il migliore, sarei in difficoltà; per cavarmela dovrei ricorrere al solito, vecchio trucco e rispondere: quello che non ho ancora scritto.












Una delle domande che spesso mi viene rivolta dai lettori è: quanto c’è di autobiografico nei tuoi romanzi? Quanto ha inciso il tuo vissuto, la realtà della tua vita?
La questione è tutt’altro che oziosa: il corretto rapporto tra verità e finzione, in letteratura e anche nelle arti figurative, costituisce l’essenza del ‘lavoro’ dello scrittore (e dell’artista).
Per quanto riguarda la narrativa, il segreto sta nel saper ‘romanzare’ una vicenda. Il verbo si presta certo a equivoci: una vicenda romanzata sovente viene intesa come ‘falsa’ o ‘esagerata’, mentre invece è il frutto di un’accurata opera compiuta dall’autore. 
‘Romanzare’ significa ad esempio raccontare i fatti con una scansione temporale diversa, più accattivante; significa evidenziare alcuni avvenimenti, ponendoli come snodi decisivi; significa far vivere al lettore le emozioni provate da diversi personaggi e non solo dal protagonista.
Il vissuto personale, quindi, deve esserci in ogni romanzo. Non come semplice ricostruzione di circostanze più o meno banali, ma come sapiente miscela di elementi in parte ‘veri’, in parte ‘raccontati’ con diverse enfasi.
Scrivere non è facile, ma è sicuramente magnifico.




QUELLA VOLTA SUI COLLI REGGIANI: 
LA LOTTA ARMATA COMPIE 50 ANNI



La forza della storia più cupa, la suspense del romanzo: un libro di Roberto Robert ricorda come tutto cominciò esattamente mezzo secolo fa:
La data, lunedì 17 agosto 1970. Il luogo, Ristorante “da Gianni” a Costaferrata, frazione del piccolo comune di Casina, sull’Appennino reggiano. Di fronte al locale, a poche centinaia di metri, si staglia possente il castello di Matilde di Canossa.
Non è un pranzo tra amici, e nemmeno una festa di paese: è un convegno che dura fino al sabato successivo. Sono presenti una settantina di persone, quasi tutte molto giovani, provenienti da varie località italiane. Una gran parte è di Reggio e dintorni, altri arrivano da Milano, da Torino e da Genova; un paio i trentini.
Lo scopo dell’incontro viene illustrato da uno degli organizzatori: “Il movimento operaio che si sta sviluppando nelle grandi fabbriche manifesta un bisogno tutto politico di potere: la lotta contro l’organizzazione del lavoro, il cottimo, i ritmi, i ‘capi’. Per questo si muove al di fuori delle strutture tradizionali del movimento operaio, come sono il PCI e i sindacati. Il bisogno di potere lo porterà inevitabilmente a uno scontro violento con le istituzioni, anche con il PCI e il sindacato. È indispensabile quindi formare una avanguardia interna a questo movimento che possa rappresentare e costruire questa prospettiva di potere. Ma questa avanguardia deve sapere unire la ‘politica’ con la ‘guerra’ perché lo Stato moderno, per affermare il suo potere, usa contemporaneamente la ‘politica’ e la ‘guerra’”.
In sala regna il silenzio: quando parla Renato Curcio, tutti ascoltano senza aprire bocca.
Negli stessi giorni a Borgo di Serio, irreale paesino della Val Seriana, giunge un misterioso personaggio. Si tratta di Carlo Salsi (ma si chiamerà davvero così?), ragazzo di ventidue anni che, in incognito, è arrivato da Reggio Emilia per contribuire alla creazione dell’immaginaria formazione terroristica ‘Bandiera rossa’.
In paese vive Mafalda Testa, ragazzina di undici anni che trascorre beatamente l’estate che separa la fine delle scuole elementari dall’iscrizione alla prima media.
I due personaggi, nello svilupparsi della narrazione, s’incontrano per puro caso. Da quel momento, però, le loro vite s’intrecciano in modo drammatico fino all’ultimo giorno d’estate, quando il rosso del tramonto, il rosso dell’ideologia e il rosso del sangue si confonderanno in un unico, simbolico sfondo.
In questi giorni ricorrono cinquanta anni dalla scelta, compiuta da diversi appartenenti ad alcune formazioni politiche di estrema sinistra in quel convegno di Costaferrata, di passare alla lotta armata contro lo Stato e le istituzioni. Pochi mesi prima era accaduta la strage di Piazza Fontana a Milano, dieci anni dopo vi sarà la bomba alla stazione di Bologna. Due lustri terribili, che vengono universalmente ricordati come ‘anni di piombo’; terroristi rossi, neri e anarchici che hanno causato, secondo le cronache, circa un migliaio di morti, compresi molti di loro stessi.
ROSSA È LA SERA DELL’AVVENIRE, presentato nel 2011 e riproposto da poche settimane in una nuova versione, ripercorre quegli anni che non possono e non devono essere dimenticati. La prefazione di Graziano Delrio, oggi politico nazionale ma per due mandati sindaco di Reggio Emilia, impreziosisce il romanzo mostrando i motivi che hanno portato la generazione nata dopo la Resistenza, figlia ideologica ancor prima che anagrafica dei partigiani, a gettare le proprie vite in un progetto rivoluzionario privo di alcuna prospettiva.
Roberto Robert, ROSSA È LA SERA DELL’AVVENIRE, Silele editore, Pagg. 350, Euro 15,00

  ANDREA VITALI E LA FIRMETTA (OVVERO: LA GRANDE IRONIA SU DI NOI STESSI)   Instancabile e inarrestabile, Andrea Vitali cucina un altr...