Come scrisse anche Anton Chekhov, ‘l’arte di scrivere
è l’arte di tagliare’.
Curioso che io riporti queste frasi, visto che i miei
ultimi due romanzi sono lunghi rispettivamente 570 e 480 pagine. E anche i
primi due non erano propriamente brevi, circa 300 pagine ciascuno.
Certo la bontà di un’opera letteraria non si misura a
peso: Giuseppe Ungaretti ha scritto poesie di due strofe che restano scolpite
nell’eternità, assai più delle migliaia di righe di un qualsiasi romanzo.
Comunque, confesso che tagliare è dolorosissimo. La
minuta successione di parole che a fatica sono state composte una dopo l’altra,
scritte e riscritte, corrette e ricorrette, a un certo punto giacciono in mezzo
alla pagina senza mostrare alcunché di pregevole sul piano letterario.
E allora il dito si appoggia sul tasto ‘canc’ e, dopo
un ultimo sospiro, distrugge una giornata di lavoro.
Fa male. Molto, davvero. Ma occorre procedere con
fermezza, senza ripensamenti: se non ‘acchiappa’, come si dice con un termine
scherzoso, non va bene.
Si tratta di un grande esercizio di umiltà, che va
praticato per tenere a bada il super-ego dello scrittore. Guai a chi cede alla
superbia, allo sterile autocompiacimento, alla scrittura fine a sé stessa. Meglio
arrivarci da soli, prima che te lo dicano i lettori.